Un’interessante digressione sul blog di Francesco Gavello di qualche tempo fa riguardante l’importanza dell’anonimato (o meglio, del non essere sgamati nel fare i cappelli neri) mi ha ricordato di dover scrivere questo articolo.
Visto che è il mio primo per SEO Training, credo sia anche giusto dargli un qualche tono partendo da alcune dovute premesse sul quale poi basare le mie conclusioni.
Parliamoci chiaro, se c’è una cosa che Google sta cercando di fare da qualche mese a questa parte è quella di spingere in ogni maniera possibile ed immaginabile il suo social network, Google Plus. Ne abbiamo discusso in un webinar SEO e ne abbiamo sentito parlare ovunque.
Hanno dato un enorme peso ai +1 nelle SERP (se si ha negli amici il condivisore, ovviamente), hanno costretto quelli di youtube a farsi il profilo, mettono frecce e segnali luminosi su tutta la serp per far sì che le persone clicchino su quel “+you” che fa tanto “è tutto intorno a te”. Bene, fino a qui è strategia aziendale e ci siamo. Ma su cosa stanno puntando davvero?
Su di noi, su noi markettari, copywriter, web master, web publisher e programmatori. Noi che in fin dei conti creiamo il Web e offriamo a Google la materia prima dei suoi profitti e del suo successo: siti internet ed articoli. In molte discussioni si è riconosciuto, tra i tanti fattori di successo della grande G, il fatto che è stato preferito dagli uomini del settore. Il suo successo è dato dalle aziende che hanno investito in adwords, dai SEO che hanno preferito lavorarci e lasciare meno attenzione ad altri MDR, dai publisher che hanno da subito utilizzato adsense , dai programmatori e designer che hanno seguito le loro linee guida sul come rendere un sito internet il più digeribile possibile per i crawler.
Questo, insieme ad altri altrettanto importanti fattori, ha contribuito a costruire quella azienda che ad oggi, almeno in italia, de facto mantiene il monopolio sulla ricerca online. E’ quindi chiaro il perchè sto arrivando a dire che google sta cercando il successo di google plus proprio attraverso noi, i “pioneri” e “primi utilizzatori” delle web application che poi diventeranno mainstream.
Forte del suo monopolio sulla ricerca, ora si sposta sul networking, facendo leva proprio su tutti noi che ci lavoriamo e che vogliamo spingere al massimo i nostri siti. Ed ecco il fulcro dell’articolo: l’author ed il publisher.
Contenuti
Authorship
Se volete sapere come fare a livello tecnico leggete questa guida di Google. Per il resto, ecco la versione commentata da me!
Il concetto è questo: se scrivi molti articoli per molti siti autorevoli, il tuo trust cresce. E già messa così potrebbe suonare come una rivoluzione copernicana, ovvero non sono più i siti – o meglio, non sono più solo i siti – ad accumulare trust, fiducia, ma sono le persone che ne creano contenuti a farlo. Se, per ipotesi, noi siamo ottimi articolisti e ottimi professionisti, ci verrà chiesto di fare guest post su siti e giornali online, avremo un buon seguito sui social network esterni (quali twitter e facebook, entrambi inseribili nel proprio profilo G+) e avremo in generale un buon engagement tra le persone che partecipano alla nostra stessa nicchia.
Questi ragionamenti, più della semplice immagine nella SERP, fan sì che il proprio profilo, opportunamente bilanciato, possa quasi diventare una sorta di klout. Ed è scontato che prima o poi, se non già da adesso, google i suoi conti se li farà per decidere se tu sei una persona degna o meno di fiducia.
Lo stesso Matt Cutts, in una delle sue videoguide, dice che loro amerebbero far sì che quelli che escono dall’anonimato siano valorizzati rispetto agli altri (lui fa il paragone con una content farm, ma io spero vivamente che questo già accada senza authorship :P) e non c’è nulla di più sensato.
La novità principale per la quale era stato presentato con molto entusiasmo era la possibilità che il proprio faccino fosse associato ai risultati della ricerca, facendo crescere la fiducia delle persone nella risorsa e allo stesso tempo aumentato la propria notorietà.
E questo è meraviglioso per il personal branding, ma cosa succede quando lavoriamo per un cliente? Come si può far sì che il suo trust aumenti senza che lui, ovviamente, sia un importante scrittore o contributore del web?
Ed ecco che arriva..
Publisher
Ovvero lo stesso discorso dell’authorship, ma per le pagine, quindi per i brand. Per le soluzione tecniche, trovate lo strumento di creazione dei badge.
Qui le cose si fanno più complesse. Innanzitutto un problema: in una stessa pagina non dovrebbero coesistere due link con rel author e publisher. Il rel publisher, dice google, è una proprietà da utilizzare in homepage e che verrà automaticamente ereditata dai “figli”, ovvero dalle singole pagine facenti parte dell’intero sito. A me non sembra 🙁
Ma ci sono anche tanti vantaggi, ad esempio si può applicare ad un giornale/blog dove i contributori sono molti ed è difficile gestirli tutti insegnandogli ad usare G+. E, soprattutto, abbinato al badge funziona come il social plugin per le pagine fan di facebook permettendo quindi di tenerti in contatto con i tuoi followers.
Conclusioni
E qui arriviamo nella vera e propria mia personale fantasia, qualcosa come “se fossi un ing. di google, come sfrutteresti queste informazioni?”…
Credo, senza dubbio, che il modo migliore di sfruttare l’authorship sia quella di avere una lista selezionata di siti per i quali scriviamo, e scriviamo di cose che corrispondono alla nostra nicchia di interesse.
Stessa cosa per la nostra attività su G+, sono sicuro che per calcolare il trust del proprio profilo Google cerchi di capire su quale argomento siamo più attivi e su quale abbiamo più seguaci. Questo, immagino, fa sì che se siamo attivi nel parlare e discutere di SEO, scriviamo articoli per blog SEO e mettiamo che la SEO è la nostra professione, Google capirà che noi possiamo essere una fonte pseudo-autorevole di contenuti per la relativa nicchia.
Vi saluto e vi lascio con il video sopracitato di Matt Cutts e l’amico suo, vestiti di blu. Secondo la critica questo è il prologo di Brokeback Mountain(View).